L’equa riparazione per la durata irragionevole dei processi.

L’equa riparazione per la durata irragionevole dei processi. (Legge Pinto)

(Francesca Raia)

Premessa.

E’ largamente risaputo che il principale addebito che si muove alla giustizia italiana da parte dell’opinione pubblica e nelle sedi internazionali è rappresentato dalla lentezza dei procedimenti, che spinge a considerare con particolare attenzione quel profilo di responsabilità dello Stato che si concretizza nella previsione di un’equa riparazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole dei processi.

L’esigenza di analizzare questa tematica nell’ottica del dialogo tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo nasce essenzialmente dalla contemporanea esistenza di strumenti internazionali e di “rimedi” predisposti dall’ordinamento interno per la tutela del diritto in questione che, se da un lato conferisce una forza maggiore alla sua garanzia, dall’altro lato può comportare – ed in effetti comporta – il rischio di veder sorgere dei contrasti tra giurisprudenze, con conseguente “diversità di tutela determinata da una differente interpretazione della portata dei diritti fondamentali”[1].

Come punto di partenza nello svolgimento del presente lavoro si prenderà in considerazione il “rimedio interno” apprestato dal nostro ordinamento con la legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), che riconosce il diritto ad un’equa riparazione in favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu)[2], sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo.

D’altra parte, non si mancherà di valutare anche la portata del principio di sussidiarietà che, come vedremo, lega i rapporti tra la tutela predisposta dall’ordinamento nazionale e quella prevista dall’ordinamento soprannazionale, nel senso di imporre una collaborazione-integrazione tra i due livelli di giurisdizione e che rappresenta il fil rouge per esaminare la concreta dinamica attraverso la quale si sviluppa il dialogo tra le Corti. L’esame dei casi concreti, che conferisce alla ricerca un taglio prettamente pragmatico, consentirà di apprezzare più efficacemente la portata di questo dialogo, facendo emergere a pieno i punti di contatto e quelli di attrito, nonché il grado di integrazione realizzatosi, in questi anni, tra giudici italiani e giudice europeo.

Il diritto alla ragionevole durata del processo nella Legge pinto.

L’approvazione della legge Pinto ha consentito all’Italia, seguendo una via già sperimentata in altri ordinamenti (come la Spagna a partire dal 1985[3]), di introdurre un “rimedio interno” onde assicurare un ricorso effettivo dinanzi ad una istanza nazionale per far valere la violazione dei diritti riconosciuti dalla Cedu.

In questo modo si è cercato, in un certo senso, di “nazionalizzare” il diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata delle procedure, ponendosi il legislatore in linea, da un lato con le indicazioni convenzionali, provenienti dall’art. 6, par. 1, della Cedu, nonché dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[4], e dall’altro con le disposizioni costituzionali, derivanti dal nuovo art. 111 della Cost., come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999[5].

In realtà, lo strumento introdotto nel 2001 si è reso necessario dopo che la riforma sul “giusto processo“, rivolgendosi al legislatore ed evocando il suo impegno ad assicurare la durata ragionevole dei procedimenti, non ha attribuito ai cittadini “alcuna garanzia nuova, direttamente azionabile, a tutela della loro aspirazione ad una sollecita risoluzione delle controversie”[6], così rivelandosi, sostanzialmente, incapace di porre rimedio alle ripetute di condanne che, specie a partire dagli anni ottanta, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rivolto nei confronti dello Stato italiano per l’eccessiva durata delle procedure e per l’assenza, all’interno dell’ordinamento, di un rimedio effettivo avverso la violazione del diritto in questione[7].

Come è noto, appena insediatasi, la Corte europea è stata prevalentemente impegnata dall’esame dei casi italiani[8], in modo così assorbente da vedere in questo eccessivo, oltre che squilibrato, impegno un serio pericolo per la sua stessa funzionalità e da dover denunciare efficacemente ed inequivocabilmente la profonda inadeguatezza dei meccanismi di procedura penale presenti nel sistema italiano[9].

La situazione critica in cui versa la giustizia italiana, tenuta ormai da tempo sotto controllo, e l’ampio spazio riservato a “le problème italien“[10], ha, inoltre, condotto gli organi del Consiglio d’Europa a dichiarare espressamente che il fenomeno (ormai patologico) della lentezza della giustizia (civile e amministrativa) in Italia costituisce una prassi ontologicamente incompatibile con la Convenzione[11], e che, pertanto, si pone in discussione la stessa riconoscibilità nel nostro ordinamento di un vero e proprio Stato di diritto [12].

Così, con la legge Pinto i soggetti coinvolti in un processo con durata superiore ad un délai raisonnable possono proporre, mediante ricorso, domanda di accertamento e di condanna al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, davanti alla Corte d’appello che, entro quattro mesi dal deposito del ricorso stesso, deciderà, applicando la procedura camerale, con decreto immediatamente esecutivo ed impugnabile in Cassazione.

La scelta di introdurre nel nostro ordinamento un sistema indennitario interno consente di evitare che i soggetti interessati si rivolgano direttamente alla Corte europea, mettendo in crisi il sistema di protezione dei diritti a livello internazionale[13]. Peraltro, la finalità della legge 89/2001 di deflazionare il contenzioso dinanzi alla Corte originato dalla lentezza dei processi italiani, si collega col carattere prioritario della tutela nazionale rispetto a quella sopranazionale, così come emerge dal principio di sussidiarietà, efficacemente sancito dall’art. 35 Cedu che, appunto, prevede il previo esaurimento delle vie di ricorso interne quale condizione di ricevibilità del ricorso a Strasburgo.

Per questo motivo il sistema di protezione dei diritti a livello europeo può essere attivato solo in seconda battuta, a condizione che la pretesa violazione del diritto sia fatta valere all’interno dell’ordinamento nazionale nelle forme ivi previste[14] e, dunque, la responsabilità internazionale dello Stato sorge proprio nel momento in cui esso non ha predisposto alcun meccanismo adatto a riparare alla violazione all’interno del proprio ordinamento giuridico.

La giurisprudenza della Corte ha pure chiarito quelle che sono le caratteristiche che il “ricorso interno” deve presentare, ovvero il fatto che debba essere accessibile, efficace e sufficiente[15], non dovendo sussistere impedimenti al suo esperimento e dovendo l’autorità competente essere in grado di porre rimedio alla lamentata lesione del diritto[16]. Inoltre, l’autorità competente dovrà godere di un certo grado di imparzialità ed indipendenza e, soprattutto, dovrà poter disporre la cessazione del comportamento lesivo, l’annullamento dell’atto, il risarcimento del danno e in ogni caso garantire, astrattamente, il raggiungimento dello scopo per cui è adita, anche senza assicurare un esito favorevole alle richieste del soggetto interessato[17]. E’ quindi possibile che il rimedio interno assuma natura amministrativa o che si svolga davanti ad una pubblica amministrazione o ad un’autorità amministrativa indipendente[18], purché in ogni caso sia caratterizzato dai requisiti richiesti per l’organo e purché avvenga secondo una determinata procedura, tanto che la mancanza di questo complesso di caratteristiche può comportare, addirittura, una eccezionale deroga alla sussidiarietà[19].

La sussidiarietà che lega e, in un certo senso, subordina al diritto interno le garanzie della Cedu, nell’imporre una sorta di “collaborazione-integrazione”[20] tra giurisdizioni nazionali e quella sovranazionale, rafforza il sistema europeo di protezione dei diritti fondamentali che funzionerà tanto meglio quanto più sarà possibile ottenere la stessa protezione da parte degli organi dei singoli Stati.

Sulla scorta di tali considerazioni, il dato che ne emerge è l’elevata importanza che acquista il principio in parola, non solo per il fatto che consente di promuovere la crescente osmosi tra ordinamenti, ma anche perché costituisce l’elemento centrale nel dialogo tra giudice europeo e giudici nazionali, i quali ultimi, seppur condizionati dal contesto sociale nel quale operano, possono svolgere una funzione importante nell’evoluzione della tutela dei diritti, proprio guardando alla giurisprudenza di Strasburgo e agli standard minimi di tutela da essa fissati e comuni ai diversi ordinamenti[21].

Il dialogo tra Giudici nazionali e Corte di Strasburgo.

In seguito all’entrata in vigore della legge Pinto e alla proposizione dei ricorsi per ottenere l’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo davanti alle Corti d’appello, i giudici italiani sono stati, in un certo senso, “costretti” a conoscere la giurisprudenza europea e a confrontarsi con essa. Questo processo di “universalizzazione” degli strumenti di garanzia dei diritti fondamentali e di sempre maggiore integrazione tra i due tipi di giurisdizione[22] è, come vedremo, favorito proprio dal ruolo assunto dalla Corte europea, i cui orientamenti sono stati, in linea di massima, recepiti dalle Corti italiane, in particolare, per quanto concerne la necessità di risolvere determinate questioni, già affrontate dal giudice europeo. Mi riferisco alla determinazione dei criteri pretori utilizzati per valutare la durata ragionevole delle procedure, alla determinazione del danno morale e del danno patrimoniale, alla necessità di dimostrare la lesione al diritto fondamentale, nonché al problema di considerare la singola fase o l’intero procedimento, al riconoscimento del diritto stesso solo alle persone fisiche o anche a quelle giuridiche, alla natura dell’equa riparazione e dell’esatta determinazione dell’eccesso di durata che concerne l’individuazione del dies a quo e del dies ad quem.

E’ intorno a queste tematiche fondamentali che si snoda il complesso dialogo tra i giudici italiani e la Corte dei diritti, anche alla luce di una più ampia valutazione del livello di integrazione (id est di “ravvicinamento”) realizzatosi in questi anni tra le due giurisprudenze.

Il valore del délai raisonnable nella giurisprudenza di Stasburgo.

Sembra utile ed opportuno a questo punto procedere ad una valutazione del valore che la tematica del délai raisonnable assume per la Corte europea proprio in quanto, nel ripercorrere la sua giurisprudenza, con particolare attenzione a quelli che sono i parametri da essa enucleati, è possibile ricavare alcune preziose guidelines per il giudice nazionale.

Come vedremo, l’importanza di questa giurisprudenza emerge nel momento in cui si prende atto del fatto che il rimedio interno, per essere “effettivo” e “previo” (rispettivamente ex artt. 13 e 35 della Cedu), deve garantire una tutela di analogo contenuto rispetto a quella assicurata dal ricorso alla Corte europea, dato che gli orientamenti dei giudici nazionali che si discostano dalla giurisprudenza europea rischiano di compromettere l’effettività del rimedio interno e di “scaricare” nuovamente sugli organi di Strasburgo il contenzioso in tema di ragionevole durata dei processi[23].

Con riferimento alla norma a garanzia della durata ragionevole, la Corte europea ha esaminato le varie parti che compongono il testo dell’art. 6 par. 1 della Cedu, innanzitutto assumendo una nozione di “tribunale” in senso non formale (id est non legata solo ad una giurisdizione di tipo classico), ma comunque richiedendo che debba trattarsi di un organo indipendente dall’esecutivo e dalle parti in causa che decide, “sulla base di norme giuridiche e all’esito di un procedimento giuridicamente regolato, ogni questione attribuita alla sua competenza”[24].

La Corte ha, inoltre, fatto propria una nozione autonoma (rispetto al diritto interno) e piuttosto ampia sia di “controversia civile” che di “accusa penale”, non considerando, con riferimento alla prima, la natura, pubblica o privata, delle parti e della legge (civile, commerciale, amministrativa, etc.)[25], ma il carattere patrimoniale del diritto[26], e, con riferimento alla seconda, ha optato per una concezione materiale, in particolare relativa alla distinzione tra illecito penale e disciplinare[27].

Quanto alle vie per pervenire ad una misurazione in concreto della ragionevolezza dei tempi di ogni singola vicenda processuale, la giurisprudenza europea individua alcuni criteri che possono definirsi di “relativizzazione”[28] a cui essa suole fare riferimento in modo costante, non senza sottolineare l’esigenza di un loro impiego combinato: si prende in considerazione la complessità del caso, il comportamento del ricorrente, la condotta tenuta dalle autorità competenti e la c.d. “posta in gioco”.

In relazione al primo criterio, occorre distinguere una complessità strutturale, caratterizzata, nell’ambito di un medesimo procedimento, da una pluralità di competenze contemporanee oppure da una pluralità di imputazioni connesse o da altri elementi (quali ad esempio la sicurezza dei testimoni)[29] rispetto ad una complessità in diritto, in ordine alla quale viene, invece, in considerazione la necessità di valutare l’esistenza di una pluralità di questioni giuridiche, la loro complessità, la novità o la mancanza di precedenti, l’esistenza di un testo legislativo oscuro e contraddittorio, l’esistenza o meno di un indirizzo giurisprudenziale uniforme e così via[30].

Il comportamento tenuto, nel corso del procedimento, dalla persona che ne lamenta una durata irragionevole ha una portata oggettiva, essendo un “elemento obiettivo non imputabile allo Stato convenuto e che viene in considerazione per accertare se vi sia stato o meno superamento del termine ragionevole dell’art. 6 par. 1″[31]. Tale elemento, tuttavia, deve essere valutato alla luce del diritto di difesa e, pertanto, le parti non potranno essere rimproverate nel caso in cui abbiano utilizzato tutti i mezzi e gli strumenti previsti dalla legge al fine di poter esercitare compiutamente la difesa e far valere le proprie ragioni[32], anche se certo è che l’uso puramente dilatorio dei mezzi, che pur la legge pone a disposizione dell’imputato nel processo penale, non può essere trascurato nella complessiva valutazione della ragionevole durata e quindi di una eventuale “assoluzione” dello Stato convenuto di fronte alla Corte europea[33].

Così, nel processo civile si richiede a chi lamenti la eccessiva durata del procedimento una particolare diligenza nell’evitare iniziative dilatorie[34], considerando che, pur essendo questo processo improntato al “principio dispositivo, che consiste nel conferire alle parti il potere di iniziativa e di impulso, non si può far assumere alla condotta dell’attore o del convenuto un rilievo talmente assorbente da dispensare “il giudice dall’assicurare il rispetto dei requisiti dell’art. 6 in materia di termine ragionevole”[35].

Elemento centrale, ai fini del riconoscimento della responsabilità di uno Stato per il mancato rispetto del termine ragionevole, risulta essere la valutazione della condotta delle autorità competenti, essendo lo Stato tenuto ad assicurare l’efficienza “dell’insieme dei suoi servizi e non soltanto degli organi giudiziari” e, quindi, risultando indifferente che il ritardo sia causato da organi del potere giudiziario, legislativo od esecutivo, poiché sul piano internazionale “è in ogni caso la responsabilità dello Stato che viene in gioco”[36]. Per tale motivo, in alcune sentenze si fa riferimento, ad esempio, ai servizi ospedalieri incaricati di redigere i referti medici[37], al ritardo nel deposito di una memoria difensiva da parte di un’amministrazione convenuta in un procedimento amministrativo[38], o si richiede ai giudici di controllare la solerzia dei periti[39].

La Corte così, precisando che non possono ricadere sul singolo procedimento né eventuali riforme legislative né il sovraccarico di ruoli dei tribunali, ha da tempo imposto, una “obbligazione di risultato”[40] a carico degli Stati nel garantire una “giustizia tempestiva” che sia esente dal rischio di cadere in una sorta di “giustizia sommaria” e ha tenuto a sottolineare che “un ingorgo passeggero dei ruoli di un tribunale non implica la responsabilità internazionale di uno Stato ove questi adotti, con la prontezza necessaria, misure idonee a porvi rimedio”, anche se “il fatto che siffatte situazioni siano divenute abituali non potrebbe scusare la durata eccessiva di un procedimento”[41].

In questo quadro, il comportamento dell’autorità procedente viene ad essere apprezzato oggettivamente, a prescindere da ogni valutazione sulla possibile responsabilità personale della stessa che potrebbe essere fatta valere con migliori e più efficaci strumenti. Difatti, l’azione per equa riparazione è una tipica azione nei confronti dello Stato-amministrazione, con la quale si agisce per far valere il diritto soggettivo alla giusta durata del processo, per cui, salvo le ipotesi di responsabilità secondo i dettami specifici che caratterizzano, ad esempio, la responsabilità dei magistrati, organo responsabile per il comportamento delle autorità nazionali è lo Stato[42].

L’ultimo dei criteri che viene in rilievo per la determinazione in concreto della “ragionevolezza” è quello della c.d. posta in gioco che porta a considerare l’oggetto della controversia e le aspettative che, dalla sua risoluzione, può legittimamente nutrire l’interessato (anche in relazione alle condizioni personali in cui si trova). La rilevanza della posta in gioco, ossia, nella terminologia di Strasburgo, “l’enjeu du litige pour le requérant” o “the stake for the applicant“, è tale da assumere, in certi casi, un grado elevato di autonomia da divenire un criterio a sé stante. E’ naturale, infatti, che ci siano cause che, per l’incidenza che la pronuncia può avere sulla vita privata e personale, ma anche patrimoniale dell’istante, devono essere trattate velocemente e celermente perché la loro soluzione è in grado di incidere in modo rilevante sull’individuo.

Così, abbiamo una posta in gioco quale criterio autonomo (l’enjeu) o quale criterio legato alla complessità del caso (nature de l’affaire), attraverso la quale la Corte richiede alle autorità una diligenza eccezionale nell’assicurare la celerità di procedimenti riguardanti beni della vita particolarmente rilevanti.

Diverse sono state le cause in cui la Corte di Strasburgo, sulla base della valutazione dell’enjeu, ha dato particolare risalto a determinate situazioni, come quella degli “emofiliaci”, persone contagiate da Aids o da epatite a seguito di trasfusioni di sangue infetto che, per lo più, hanno riguardato la Francia, la Danimarca e l’Italia[43], oppure ancora i casi concernenti lo status delle persone (procedure di adozione e divorzio) [44] o le controversie di lavoro[45].

Riguardo alle “linee guida” appena esaminate, si pone il problema del loro grado di vincolatività per il giudice italiano, anche in considerazione del fatto che il patrimonio giurisprudenziale europeo si pone come precedente non solo necessario, ma anche utile ad evitare che le Corti nostrane ricorrano ad una giurisdizione sommaria e pretoria, producendo una disparità di trattamento nelle liquidazioni che prima la centralità delle pronunzie della sola Corte europea rendeva impossibile. Peraltro, sfuggire ai criteri dettati negli anni dalla Corte di Strasburgo ha un significato che oggettivamente risulta fuorviante rispetto all’ottica europea che spesso, invece, si tenta di guardare e stravolgere tali criteri, sino a renderli irriconoscibili, non può che rappresentare una “irragionevole” negazione della salvaguardia che la Convenzione offre del particolare diritto fondamentale che l’individuo ha alla celebrazione di un processo non solo equo, ma anche celere[46]. In questo senso, conforta leggere la decisione sul caso D’Ingianti dove la Corte d’appello evidenzia che “la circostanza che come fatto produttivo del danno il legislatore italiano preveda immediatamente la violazione dell’art. 6 della Convenzione, autorizza ed anzi impone di rintracciare i necessari canoni interpretativi nella giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo che, sul tema, ha avuto infatti modo di emettere numerose pronunce anche nei confronti dello Stato italiano”[47].

L’importanza degli orientamenti che emergono in sede europea trova anche una chiara conferma dall’esame dei primi ricorsi per Cassazione nei confronti dei decreti delle Corti d’appello, ricorsi coi quali viene denunciata la violazione di legge sotto il profilo della violazione dell’obbligo di applicare la giurisprudenza della Corte europea, o comunque per non aver tenuto conto della stessa.

Il Giudice italiano di fronte alla giurisprudenza di Strasburgo.

Il collegamento operato tra la giurisprudenza europea e quella dei giudici nazionali trova, così, una significativa espressione nell’art. 2 della legge n. 89/2001, che fa espresso rinvio all’art. 6 par. 1 della Cedu e ai criteri elaborati a Strasburgo[48]. In pratica, il legislatore nazionale ha fatto un esplicito rinvio alla normativa convenzionale, richiamando la nozione di délai raisonnable come interpretata dagli organi internazionali che vigilano sull’applicazione della Convenzione e rievocando, altresì, le definizioni offerte da quelle autorità, di “contestations sur […] droits et obligations de caractère civil” e di “accusation en matière pénale“.

Tuttavia, il riferimento alla Convenzione certo non significa che vi sia necessariamente – come infatti non vi è – perfetta coincidenza per ciò che concerne l’individuazione del termine ragionevole di durata o per quanto concerne l’ambito di applicazione della normativa nazionale. Infatti, sembra potersi affermare che la Convenzione costituisce il contenuto minimo dei dritti riconosciuti dalla legge Pinto, nulla impedendo che l’interprete possa attribuire alla legge nazionale un contenuto più ampio. Come è stato sostenuto, “la giurisprudenza elaborata dagli organi di tutela di Strasburgo ha definito, arricchendolo, il contenuto dei diritti e delle libertà che sono, per lo più, enunciati in termini lapidari nella Convenzione (ed in alcuni dei suoi Protocolli aggiuntivi) ed ha dato luogo alla creazione, in Europa, di quello che […] è ritenuto il diritto della libertà [che costituisce] il denominatore comune di libertà oggi legante i Paesi europei […], ma non impedisce, come del resto ammette la Convenzione (e come, in realtà avviene in Italia), che uno standard superiore possa già essere tutelato in un Paese e che a questo livello possa domani estendersi la garanzia della Convenzione”[49].

L’affermazione di una derogabilità in melius della Cedu, consente, quindi, di ritenere che la legge n. 89/2001 non trovi ostacoli nel garantire un migliore livello di protezione rispetto al minimum di tutela contenuto nella Convenzione.

A distanza di pochi mesi dall’entrata in vigore, la legge che istituisce un rimedio interno per l’irragionevole durata dei processi aveva ricevuto numerose applicazioni, ciò anche in considerazione del breve termine previsto all’art. 2, comma 6, di quattro mesi dal deposito del ricorso, per la pronuncia del decreto della Corte d’appello. Così, su alcune questioni le Corti di merito hanno, da subito, avuto occasione di prendere posizione, spesso adeguandosi direttamente o indirettamente alla giurisprudenza di Strasburgo, salvo qualche sporadico e, fortunatamente, isolato caso.

Con riferimento ai parametri utili per la determinazione in concreto della “ragionevolezza”, non vi sono particolari differenze, considerato il rinvio che l’art. 2 della legge Pinto opera ai criteri elaborati in via pretoria dalla Corte europea e che consente di ritenere che con la legge Pinto si opera un rinvio, non solo alla Convenzione, ma al diritto vivente come elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Tuttavia, è da segnalare il formarsi di orientamenti non del tutto omogenei tra le varie Corti nazionali, alcune delle quali sembrano aderire esplicitamente alla giurisprudenza europea, altre invece se ne discostano più o meno significativamente. Ad esempio, in relazione al parametro della condotta delle autorità competenti, questo a volte viene considerato in maniera eccessivamente formalistica, escludendo la possibilità di valutare, nell’accertamento della violazione del termine ragionevole di durata, il comportamento di soggetti che non possono essere considerati organi giudiziari[50], in altri casi, in linea con la consolidata giurisprudenza europea, si afferma invece che “nel comportamento del giudice e di ogni altra autorità rientrano tutte le possibili ipotesi di disservizio della giustizia, riferibili tanto a responsabilità individuale del singolo magistrato, del cancelliere, del consulente tecnico d’ufficio o di altri suoi ausiliari, quanto verosimilmente a responsabilità del sistema, con riguardo a pur forzose stasi processuali per mancanza o insufficienza dell’organico, ad intollerabili carichi di lavoro, a tardive sostituzioni di magistrati impediti o trasferiti, a mancanza di locali e strutture e via elencando”[51].

L’adesione esplicita ai canoni elaborati da Strasburgo è rinvenibile anche in un decreto del 23 luglio 2001 della Corte d’appello de L’Aquila che, in linea con la giurisprudenza romana, ha ritenuto che la sussistenza della violazione del diritto al termine ragionevole del processo vada accertata tenendo conto, tra le altre cose, anche del comportamento del giudice del procedimento, “nonché di quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o comunque a contribuire alla sua definizione” e che “occorre, nondimeno, esaminare la questione relativa alla entità del caso (cfr. App. Roma, 10 luglio 2001) in applicazione di un altro fondamentale parametro [rappresentato dalla] rilevanza della ‘posta in gioco’ (cfr., per tutte, Corte europea dir. uomo 18 febbraio 1999, Laino c. Italia)”, utilizzato dalla Corte di Strasburgo per la determinazione del termine ragionevole e che può “costituire un fondamentale criterio guida nella liquidazione dell’equa riparazione“.

Come si può vedere, la “posta in gioco” viene in rilievo per i giudici italiani non tanto ai fini della valutazione della ragionevole durata, quanto per la quantificazione dell’indennizzo, in particolare, del danno non patrimoniale e ciò è ben evidenziato dal decreto della Corte d’appello di Roma sul caso Corbo, dove si sostiene che “per quanto poi concerne più specificamente il danno morale è indubbio che sebbene determinabile, solo in via equitativa, non essendo monetizzabile il pretium doloris, deve comunque rapportarsi alla sofferenza, al disagio, all’ansia, alla preoccupazione procurata dal prolungarsi del giudizio oltre il termine di ragionevole durata, ma soprattutto dagli ‘interessi in gioco’ essendo fin troppo evidente che una cosa è la pendenza di un giudizio penale per imputazione di reati gravi ed infamanti, ovvero la pendenza di un giudizio civile che riguarda aspetti delicati della vita affettiva e di relazione, quali affidamento di minori o riconoscimento di paternità o maternità, o, sempre nel campo civile, che riguarda rilevanti interessi patrimoniali che incidono sull’aspetto economico e sociale dell’interessato ed altro è, come nel caso di specie, la definizione di un giudizio di trascurabile valore economico, per soli danni alle cose”.

Operando una sorta di inversione, rispetto all’utilizzo abitualmente fatto dai giudici di Strasburgo, l’enjeu diviene, così, l’elemento in base al quale le Corti nostrane tendono a sminuire la portata del danno non patrimoniale subito dalle vittime di processi eccessivamente lunghi[52].

Ancora con precipuo riferimento al danno morale si registra una significativa divergenza rispetto alle linee di tendenza espresse in sede europea. Già la prima giurisprudenza della Cassazione sulla legge Pinto pare indirizzata verso una posizione piuttosto restrittiva, nel senso di escludere che “il danno patrimoniale o morale sia in re ipsa per il solo fatto che il processo si sia protratto oltre la sua fisiologica durata“[53], con ciò riprendendo un orientamento già anticipato da alcune decisioni di merito di Corti d’appello[54].

Altre Corti d’appello italiane si sono allineate, invece, alla giurisprudenza europea che da sempre ha riconosciuto il diritto all’indennità per il danno morale, senza la necessità di fornirne la prova, ma ritenendo il protrarsi del procedimento di per sé causativo di un danno non patrimoniale[55] che, “in mancanza di specifici elementi di valutazione, [si deve individuare] con valutazione necessariamente equitativa” [56]. In questo senso, quindi, il danno morale deve ritenersi in re ipsa o comunque “dimostrato sulla base dell’id quod plerumque accidit” [57], non richiedendo una prova puntuale e specifica, ma potendosi presumere che l’anormale durata del processo comporti di per sé sola una situazione di patimento psichico per chi la subisca.

Dall’operato della Corte di cassazione si ricava l’impressione che questa sia, in un certo senso, combattuta tra la consapevolezza di essere l’organo principalmente deputato a dare effettività al rimedio interno e la difficoltà di trasporre nel nostro ordinamento sic et simpliciter i canoni elaborati da Strasburgo, stante l’impossibilità di attingere troppo da quella giurisprudenza europea, soprattutto quando vengano in gioco le categorie aquiliane.

L’altro piano sul quale si è delineato, ormai ben chiaramente, l’allontanamento dallo jus receptum europeo è quello delle misure per la liquidazione del diritto all’equo ristoro alle parti protagoniste, loro malgrado, di processi a lunga durata. A prescindere dalla natura di tale “diritto”, che la Corte di cassazione, fin dalla prima sentenza, ha riconosciuto come indennitaria e non risarcitoria[58], sul presupposto che l’equa riparazione concretizzi un’ipotesi di responsabilità dello Stato per attività legittima[59], le Corti domestiche si sono discostate dai canoni europei[60], facendo ricorso a misure (risarcitorie aut indennitarie) in ogni caso nettamente inferiori rispetto al “tariffario” europeo, liquidando importi, in genere, della metà rispetto a quelli accordati da Strasburgo.

Ed anche per quanto concerne l’onere della prova per ottenere l’equo indennizzo, quando esso viene riconosciuto tutelabile, sono emersi orientamenti più rigorosi da parte della giurisprudenza domestica che sembra aver ignorato il favor processuale che la Corte europea aveva concesso al cittadino italiano, con la sentenza resa nel caso Bottazzi c. Italia del 28 luglio 1999, allorquando aveva cominciato ad applicare il principio dell’inversione dell’onere della prova, richiedendo che fosse lo Stato italiano a doversi discolpare provando che i ritardi non erano da addebitare allo stesso. La prima giurisprudenza della Cassazione sostiene, invece, che spetti al cittadino-attore provare che la durata irragionevole è dipesa da ritardi imputabili alle autorità italiane e non, invece, alle cause che sono state tipizzate come dirimenti, quali la complessità del caso ovvero la condotta delle parti.

E’ da rilevare come, ai fini del calcolo della ragionevole durata, si registrino alcuni contrasti interni alla giurisprudenza delle Corti italiane riguardo ad un’ulteriore importante questione, costituita dalla necessità o meno di considerare l’intero procedimento (dall’atto iniziale alla sua conclusione, sino al soddisfacimento della pretesa fatta valere in giudizio) o se possa essere anche isolatamente considerata un singola fase (come il primo grado, l’appello e la Cassazione o il procedimento esecutivo).

Mentre, sulla base di un orientamento il diritto alla riparazione previsto dalla legge Pinto sorge quando l’ingiustificata inerzia dell’organo giudiziario protragga oltre i limiti della ragionevolezza l’iter processuale, anche in una sua sola fase[61], secondo un’altra impostazione “la disciplina introdotta dal legislatore del marzo 2001 sembra, infatti, porre a fondamento del nuovo diritto tutelato (art. 2, comma 1) la mera, oggettiva violazione dell’art. 6 Cedu, che (come ora anche il nuovo e vincolante art. 111 Cost.) si limita a prescrivere un termine ragionevole alla ‘causa’, indicata bensì nella sua concretezza, ma anche nella sua interezza ed unitarietà”[62]. L’accertamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Cedu andrebbe, dunque, operato comprendendo, in una visione unitaria, ogni grado e fase dell’intero processo[63].

Così, sul calcolo dei tempi processuali anche l’art. 2, al terzo comma, della legge n. 89 del 2001 chiarisce che la riparazione deve essere riconosciuta per il solo periodo eccedente la durata ragionevole dell’iter giudiziario e in genere i giudici italiani hanno assunto come parametri di riferimento gli standard di Strasburgo, rapportando la ragionevole durata del procedimento non già alla media di durata dei processi in Italia, bensì a quella europea[64].

In parte collegato con questo tema, è la questione del momento iniziale e di quello finale del processo di cui si intende soppesare la ragionevolezza dei tempi processuali, ovvero il problema della misurazione della durata del procedimento mediante l’individuazione del dies a quo e del dies ad quem per poi operare sul segmento, così individuato, una valutazione della ragionevolezza dei tempi processuali che tenga conto dei criteri enunciati dalla legge Pinto e dalla giurisprudenza europea. Con riferimento a queste problematiche non sembra che le posizioni dei giudici nostrani si siano eccessivamente discostate da quelle da sempre seguite dalla Corte europea.

In relazione al dies ad quem si suole adottare un criterio sostanziale per cui si ritiene che occorra tener conto del tempo della decisione sul merito della causa[65] e, nel caso in cui la decisione venga impugnata, anche dei tempi dei giudizi nei gradi successivi al primo, fino alla sentenza passata in giudicato[66], comprendendo, eventualmente, anche la fase di esecuzione[67], se proprio attraverso questa si ottiene il materiale soddisfacimento della pretesa dedotta in giudizio.

Quanto, invece, al dies a quo, mentre nel processo civile viene, pacificamente, fatto coincidere con l’atto di citazione o comunque con l’atto introduttivo di primo grado, incluse le eventuali fasi preliminari previste dalla legge[68], quali il tentativo obbligatorio di conciliazione[69], nel processo penale la sua individuazione si dimostra più problematica, non esistendo un unico atto formale a cui si possa ricollegare necessariamente l’inizio del processo[70]. In questo ambito, essendo concretamente coinvolti interessi che possono essere di essenziale importanza e determinando le sanzioni una sostanziale restrizione dei diritti fondamentali, sembra doversi attribuire rilievo al momento in cui i sospetti nei confronti di una determinata persona iniziano ad avere importanti ripercussioni sulla sua situazione giuridica e, più in generale, sulla sua vita[71], ovvero nel momento in cui possa dirsi configurata un'”accusa” e ciò può verificarsi anche ben da prima che vi sia una formale imputazione[72].

Per quanto concerne il termine finale del procedimento penale, i giudici nazionali, in linea generale, si sono adeguati alla soluzione europea che, anche in questo caso, adotta un criterio sostanziale per cui esso coinciderà col momento in cui termina l’incertezza, portatrice di sofferenza personale correlata alla pendenza del processo, il che può avvenire con il deposito della sentenza, comprensiva di dispositivo e motivazione[73].

L’impostazione (con riguardo al termine finale) sembra anche concordare con quanto stabilito dal legislatore italiano che, all’art. 4 della legge Pinto, dispone che il termine decadenziale di sei mesi per proporre la domanda di riparazione di fronte alla Corte d’appello decorre “dal momento in cui la decisione che conclude il medesimo procedimento è divenuta definitiva”. L’articolo in questione, inoltre, espressamente prevede la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione anche “durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”; in tal caso il dies ad quem si identificherà con il momento in cui la Corte d’appello procede alla valutazione della lamentata eccessiva durata, previsione questa che, nonostante i problemi pratici cui può dar luogo, consente di attivare il controllo anche di quei procedimenti la cui durata appare intollerabile mentre ancora pendono.

Quanto, infine, alla possibilità di riconoscere il risarcimento del danno non patrimoniale in capo alle persone giuridiche, a fronte di due orientamenti contrapposti sviluppati dalle Corti nostrane[74], i giudici europei, nel 2000, hanno chiarito che anche le società commerciali possono subire dalle lungaggini processuali danni diversi da quelli materiali e non di meno meritevoli di risarcimento (lesione dell’immagine dell’azienda, incertezza nella programmazione per l’impossibilità di contare su una rapida definizione delle pendenze giudiziarie, etc.)[75].

Nel tentativo di colmare la distanza che, come abbiamo visto, separa gli orientamenti delle Corti d’appello dalla posizione assunta dai giudici di Strasburgo, la Corte di cassazione ha sicuramente svolto, in questo come in altri ambiti, un’opera di armonizzazione ed omogeneizzazione determinante. Richiamandosi alla nozione di “diritti immateriali della personalità”, ha precisato che “la persona giuridica, per sua natura, non può subire dolori, turbamenti od altre similari alterazioni, ma è portatrice di quei diritti della personalità, […] all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione [per cui] si deve affermare che l’irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica alla condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente od indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d’incertezza connessa alla pendenza della causa”[76].

Le recenti aperture delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La giurisprudenza della Corte di cassazione assume un rilievo significativo anche nelle recenti decisioni del 26 gennaio 2004 (la n. 1338, caso Balsini, n. 1339, caso Lepore, n. 1340, caso Corbo e n. 1341, caso Lepore+1), con le quali le Sezioni Unite sembrano aver posto fine al latente conflitto, durato quasi due anni, con la Corte europea[77] e, attraverso le quali, si riconosce la prevalenza e la diretta applicabilità, nell’ordinamento giuridico italiano, della giurisprudenza di Strasburgo in tema del risarcimento del danno a carico dello Stato per la durata non ragionevole dei processi. In effetti, le sentenze ora in esame sembrano aver raccolto l’invito dei giudici di Strasburgo affinché le Corti italiane “montrent, dans leur jurisprudence, qu’elles appliquent la loi précitée [legge Pinto] conformément à l’esprit de la Convention” (sentenza Scordino c. Italia del 27 marzo 2003).

Con la discutibile sentenza Brusco c. Italia (del 6 settembre 2001 n. 69789/01) la Corte europea, dichiarando, per la prima volta, irricevibile per “improcedibilità sopravvenuta” un ricorso propostole, sulla base del fatto che non erano stati esauriti i rimedi interni previsti dalla legge Pinto, aveva dato, senz’altro, credito all’Italia circa l’effettività del rimedio interno e un forte segnale della volontà di “sbarazzarsi” definitivamente del problema italiano, osservando che proprio il principio di sussidiarietà rende necessario che i ricorsi vengano istruiti in primo luogo da un’istanza nazionale.

Tuttavia, l’atteggiamento dei giudici di Strasburgo ha cominciato a modificarsi anche in conseguenza degli orientamenti emersi dalle pronunce delle Corti d’appello, nonché dell’interpretazione e applicazione della legge 89/2001 da parte della Prima Sezione della Cassazione, la quale si è mostrata costante su tre punti centrali: mancato riconoscimento del diritto al termine ragionevole come diritto fondamentale nell’ordinamento italiano, mancato riconoscimento della diretta applicabilità della Cedu e della relativa giurisprudenza e, infine, rifiuto da parte della Cassazione stessa di svolgere qualsiasi sindacato sul quantum della liquidazione accordata dalle Corti di merito che si mostri inadeguato rispetto ai canoni elaborati in sede europea.

In tal modo, preso atto del contrasto tra la giurisprudenza nazionale e quella europea, con la sentenza sul caso Scordino c. Italia si ha una sorta di revirement (o capovolgimento) in tema di ricevibilità dei ricorsi, avviandosi la Corte europea a considerare la legge Pinto inidonea a fungere da rimedio effettivo e, quindi, sulla base di nuove regole di procedura, ad ammettere i ricorsi anche senza la necessità di esaurire le vie interne di tutela.

La Corte di Strasburgo, con la decisione suddetta, dopo aver preso in esame ben cento sentenze della Cassazione italiana, emesse in applicazione della legge Pinto dal 2001 al 2003, ha, così, avuto modo di stigmatizzare l’assoluta negazione dei parametri di Strasburgo e, quindi, di constatare l’inadeguatezza della giurisprudenza italiana rispetto a quella europea[78].

Alla luce delle considerazioni sollevate in occasione della sentenza Scordino, le Sezioni Unite, con le pronunzie del 2004, nel riesaminare la precedente giurisprudenza della Cassazione, hanno occasione di svolgere un ripensamento onde imprimere una significativa svolta al dialogo tra le giurisdizioni italiane e quella della Corte europea.

In primo luogo, è con la decisione n. 1338/2004 che si riconduce espressamente e direttamente la garanzia della ragionevole durata del processo all’art. 111, comma 2, Cost., il quale, secondo le Sezioni Unite, “non va contrapposto, ma si integra con l’art. 6 Cedu”. Il bene tutelato dalle due disposizioni è, infatti, il medesimo, ovvero la durata ragionevole del processo, essendo diversa soltanto la prospettiva in base alla quale esso viene considerato: garanzia oggettiva dell’ordinamento nella norma costituzionale, garanzia soggettiva della persona nella Cedu.

In secondo luogo, si stabilisce quale effetto giuridico debba attribuirsi nel caso di specie alle pronunce della Corte europea. A prescindere dal “controverso problema [della] collocazione della Cedu nell’ambito delle fonti del diritto interno”, essendo l’applicazione diretta dell’art. 6 “sancita” dall’art. 2, comma 1, della stessa legge Pinto, si afferma, oltre all’applicabilità diretta di una norma della Cedu per relationem, anche che il giudice italiano “non [possa] discostarsi dall’interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo”.

L’efficacia, nell’ordinamento interno, della giurisprudenza della Corte europea si rivela decisiva sotto il profilo della liquidazione del danno non patrimoniale, a proposito del quale la Cassazione afferma che i giudici di Strasburgo “hanno liquidato alle vittime il danno non patrimoniale ritenuto sussistente senza bisogno di alcun accertamento [di carattere probatorio] a riguardo”, anche se ciò avverrebbe non automaticamente, bensì normalmente “ed invero è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elemento presuntivi”.

Ne consegue che in re ipsa non sarebbe tanto il danno, quanto la prova di questo e pertanto le conseguenze non patrimoniali della violazione si devono ritenere desumibili sulla base dell’id quod plerumque accidit, a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede, invece, la prova della sua esistenza.

Le Sezioni Unite del 2004 giungono, in questo modo, ad affermare che le pronunce della Corte, in materia di durata ragionevole del processo, assumono, quindi, se “considerate in linea generale come orientamenti interpretativi”, una funzione ermeneutica imprescindibile per assicurare la conformità della legge Pinto alla Cedu ed alla Costituzione. Ove poi i giudici di Strasburgo si siano già pronunciati su una fattispecie specifica, accertando la violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione e liquidando il relativo danno non patrimoniale, “ogni possibilità per il giudice nazionale di escludere il danno non patrimoniale deve ritenersi inesistente perchè preclusa dalla precedente decisione della Corte europea”. In questo caso, il giudice nazionale si limiterà ad accertare “il protrarsi della violazione nel periodo successivo a quello considerato dalla detta pronunzia”, dal quale “consegue che il ricorrente ha continuato a subire un danno non patrimoniale”. Le sentenze della Corte europea sarebbero quindi idonee a dispiegare nell’ordinamento italiano un’efficacia diretta, contrariamente a quanto affermato dalla Cassazione con la meno recente sentenza n. 11987 del 2002, che ne negava il valore di “giudicato esterno”.

Si corregge, altresì, l’orientamento secondo il quale il sindacato della Cassazione sul quantum dell’equa riparazione sarebbe escluso poiché relativo a questioni di fatto. Come sottolineato dai giudici di Strasburgo nel caso Scordino, i giudici nazionali dispongono, nel liquidare il danno non patrimoniale, di una “marge d’appréciation“, la quale tuttavia deve mantenere un “rapport raissonnable avec la somme accordée par la Cour [européenne] dans les affaires similaires“. Sarà, quindi, il rispetto, da parte del giudice di merito, di un tale rapporto di ragionevolezza con i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte europea, ad avere natura giuridica e quindi a concretizzare un vizio di violazione di legge censurabile in Cassazione.

A questo precipuo riguardo, si regista un’ulteriore ed importante evoluzione nella giurisprudenza della Suprema Corte, la quale, con una sentenza che si pone nel solco delle decisioni del 26 gennaio 2004, pochi mesi dopo (sentenza n. 11350 del 17 giugno 2004, cui è seguita la n. 17139 del 2004) ha ridotto il margine di discrezionalità riconosciuto con la sentenza n. 1340: mentre prima il giudice nazionale doveva applicare i parametri europei, cum grano salis, attualmente si assiste all’affermazione del principio per cui il meccanismo riparatorio introdotto dal legislatore italiano “deve mantenere una perfetta simmetria di contenuto con l’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei dritti umani, come in concreto questa norma vive attraverso l’esegesi della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone con gli stessi limiti ai giudici italiani”.

Con questa sentenza il vincolo di conformazione della giurisprudenza italiana alla giurisprudenza internazionale è divenuto ormai indiscutibile ed indissolubile, essendo rimasta al giudice italiano una “modesta” discrezionalità sulla liquidazione della domanda di equa riparazione ed avendo egli perduto ogni e qualsivoglia discrezionalità in merito alla valutazione della sussistenza della fattispecie criminosa, cioè della violazione o meno della Convenzione, perché d’ora in poi sarà sempre e soltanto la giurisprudenza della Corte europea a delineare la fattispecie della violazione[79].

In ultimo, non si può trascurare come queste recenti “aperture” abbiano condotto la Corte europea a porsi il problema della ricevibilità dei ricorsi per i quali alla data del 26 gennaio 2004 non fosse ancora spirato il termine per l’impugnazione davanti alla Cassazione, essendo tale via di ricorso interna diventata ormai effettiva ed efficace. La Corte di Strasburgo, con la decisione sul caso Di Sante c. Italia (del 24 giugno 2004, sul ricorso n. 56079/00) ha, così, fissato un termine di sei mesi entro il quale diventa inescusabile l’ignoranza del revirement delle Sezioni Unite, ai fini delle condizioni di ricevibilità del ricorso a Strasburgo, stabilendo, pertanto, che, sulla base di nuove regole di procedura, a partire dal 26 luglio 2004 sono da considerare irricevibili le richieste relative a decisioni di Corti d’appello per le quali era ancora pendente il termine per l’impugnazione davanti alla Cassazione (obbligatorio ai sensi dell’articolo 35, par. 1, della Convenzione), mentre non sussistono questioni di irricevibilità per quei decreti passati in giudicato[80].

Dalle considerazioni appena svolte sembra emergere un dato direi incontestabile, ovvero che, a partire dal 2004, la Cassazione ha tracciato un quadro complessivo che non può lasciare adito ad alcun dubbio circa la vincolatività (per il giudice italiano) della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e circa la valenza squisitamente politica delle quattro sentenze delle Sezioni Unite, grazie alle quali siamo, finalmente, giunti, per via giurisprudenziale interna, ad una piena applicazione della Cedu, anche tramite un’evolutiva interpretazione della legge Pinto, senza la necessità di una sua modifica legislativa, ma solo applicando i principi espressi dalla giurisprudenza europea.

Rilievi critici.

Tirando le fila di quanto si è fin qui detto, non è possibile nascondere le perplessità che sono state avanzate in ordine all’idoneità della legge Pinto a rendere effettivo, a livello interno, il principio della durata ragionevole dei processi.

Il “rimedio interno”, attraverso il quale si è cercato di dare attuazione al monito sollevato da Strasburgo, di fronte al costante incremento del già ragguardevole numero di condanne inflitte al nostro Paese, non sembra in grado, da solo, di risolvere i problemi legati alla durata eccessiva dei processi in Italia, né a possedere l’attitudine a determinare l’auspicata accelerazione delle procedure.

Ciò, infatti, non pare essere avvenuto data l’attuale durata media dei giudizi che risulta aggirarsi ancora, per i processi civili, intorno agli oltre otto anni (se si considera un giudizio che si articoli in due gradi di merito e in quello di legittimità) e per i processi penali intorno ai cinque anni e mezzo (ipotizzando un procedimento che si snodi dalla fase delle indagini preliminari, fino all’eventuale giudizio di Cassazione).

Nonostante la chiara ambizione di costituire uno strumento in grado di deflazionare il contenzioso di fronte agli organi di giustizia europea per la lentezza dei processi italiani, la legge n. 89/2001 non ha la forza di incidere “a monte” sulle problematiche dei tempi processuali, come invece sarebbe stato preferibile, attraverso l’introduzione di previsioni in grado di impedire il verificarsi della violazione. D’altra parte anche la giurisprudenza di Strasburgo ha più volte affermato che, per considerare effettivo un rimedio interno, occorre che esso sia anche in grado di evitare eccessive lungaggini, contribuendo ad accelerare i procedimenti[81]. Ciò consente di ritenere, come taluni hanno sostenuto, in tono fortemente critico, che l’equa riparazione prevista dalla legge Pinto sarebbe solo una extrema ratio, essendo strano che lo Stato, da un lato, inserisca tra i suoi principi fondamentali quello della ragionevole durata del processo e, dall’altro, dando quasi per scontata l’inosservanza di tale principio, preveda addirittura come soluzione fisiologica quella dell’indennizzo, convertendo, così, l’obbligo primario e costituzionalmente protetto di rendere una tempestiva prestazione giudiziaria (ex art. 111 Cost.) in una sorta di obbligazione pecuniaria surrogatoria[82]. Secondo altri, inoltre, la legge comporterebbe il rischio “di sostituire per tale via il diritto fondamentale ad una giustizia entro un termine ragionevole con un diritto di credito dei singoli nei confronti di uno Stato che, cosciente della propria incapacità di assicurare una rapida trattazione delle causa, ritiene più opportuno indennizzare i cittadini che inevitabilmente saranno danneggiati”[83].

Ecco perché, questo rimedio non può considerarsi risolutivo, se non in via transitoria, dato che la violazione del termine di ragionevole durata del processo affonda le sue radici in gravi disfunzioni di tipo strutturale ed organizzativo del sistema e richiede uno sforzo collettivo, di istituzioni ed operatori della giustizia, teso alla più generale razionalizzazione e normalizzazione dei tempi processuali, al fine di realizzare una complessiva opera di snellimento dell’organizzazione giudiziaria.


[1] Cfr. G. Azzariti, Introduzione al seminario su La Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. nei processi costituenti europei, 22 giugno 2001 presso l’Istituto di studi giuridici della facoltà di giurisprudenza della LUISS, p. 9, consultabile anche alla pagina internet www. luiss.it.

[2] Convenzione ratificata a Roma il 4 novembre 1950, entrata in vigore nel 1953 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

[3] Si veda la legge organica spagnola del 1° luglio 1985, n. 6 (“Poder judicial“) sull’ordinamento giudiziario che prevede, all’art. 292, che i danni causati a qualunque bene o diritto per errore giudiziale, così come quelli che siano conseguenza, salvo i casi di forza maggiore, del funzionamento anormale dell’amministrazione della giustizia, danno diritto a tutti i cittadini a una indennità a carico dello Stato.

[4] Carta sottoscritta e proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 dai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione a nome delle rispettive istituzioni.

[5] Cfr. R. Romboli, La giustizia nella Carta dei diritti di Nizza, in Testi e questioni di ordinamento giudiziario e forense, a cura di S. Panizza, A. Pizzorusso, R. Romboli, Pisa 2003, p. 383.

[6] Cfr. N. Trocker, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in “Riv. trim. dir. proc. civ.”, 2001, p. 404.

[7] Per inciso, bisogna dare atto che a proposito di tale riforma sono stati avanzati dubbi circa la sua reale efficacia tanto dal punto di vista pratico, quanto da quello della portata innovativa, essendo stata, sia in dottrina che in giurisprudenza, in più occasioni ravvisata nella norma ex art. 24, comma 2, Cost. (diritto di difesa) la garanzia dello svolgimento di un “processo giusto”, assegnandosi ad essa una funzione corrispondente a quella della due process of law clause contenuta nella Costituzione nordamericana. In questo senso, si veda M. Chiavario, Un “giusto processo” dal futuro ancora incerto, in “Corriere giur.”, n. 1, 2000, p. 5 ss., S. Chiarloni, Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di M.G. Civinini e C.M. Verardi, atti del convegno organizzato dalla Rivista “Questione Giustizia” a Procchio – Isola d’Elba, 9-10 giugno 2000, Milano 2001, p. 13 ss. e recentemente T. Giovannetti, Il diritto alla durata ragionevole del processo come diritto sui generis nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Il dialogo tra le Corti: principi e modelli di argomentazione, a cura di E. Navarretta e A. Pertici, atti del seminario congiunto del Dottorato di diritto privato e del Dottorato di giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa, 3 aprile 2003, Pisa 2004, p. 90 e ss.

[8] A titolo esemplificativo si consideri che nel 1999 tutte le violazione della Convenzione accertate a carico dell’Italia (44) riguardano l’art. 6, par. 1. Le violazioni della stessa norma accertate a carico degli Stati Europei sono 12 per la Francia, 7 per il Portogallo, 7 per la Turchia, 5 per il Regno Unito, 3 per l’Austria, 2 per la Grecia, 1 per la Slovacchia, 1 per il Belgio.

[9] Corte eur., sentenza 13 maggio 1980, (serie A/37), caso Artico c. Italia, con commento di A. Pizzorusso, Rossi di vergogna, anzi paonazzi, in “Foro it.”, 1980, parte IV, col. 150.

[10] Cfr. P.P. Sabatelli, I canoni ermeneutici di Strasburgo non possono essere trasferiti alla Cassazione italiana: l’ineffettività pratica della legge Pinto, in Il dialogo tra le Corti: principi e modelli di argomentazione, cit., p. 99.

[11] Corte eur., sentt. 28 luglio 1999, Di Mauro c. Italia, Bottazzi c. Italia e Ferrari c. Italia.

[12] Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, 11 luglio 1997, n. 336. Sul tema, si veda A. Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: considerazioni introduttive, in “Corriere giur.”, n. 5, 1999, p. 652.

[13] Si sostiene che la legge de qua rappresenti il primo “seguito” della giurisprudenza inaugurata col caso Kudla c. Polonia (del 26 ottobre 2000), con la quale la Corte europea, nell’interpretare l’art. 13 Cedu (Diritto ad un ricorso effettivo), precisava che il diritto di ciascuno a vedere la propria causa giudicata entro un termine ragionevole è meno effettivo se manca la possibilità di adire preliminarmente un’autorità nazionale e, nel caso di specie, dichiarava l’avvenuta violazione dell’art. 13 a causa dell’assenza nell’ordinamento polacco di un rimedio interno.

[14] Alcuni ritengono che il ricorso dinanzi ad una istanza nazionale non necessariamente debba avere carattere “giurisdizionale”, come rileva F.P. Luiso, Intervento al forum, in “Rivista di Diritto costituzionale”, 2002, p. 346.

[15] Cfr. R. Pisillo Mazzeschi, Commento all’art. 35 § 1 Cedu, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, Padova 2001, pp. 579-602.

[16] Si vedano inoltre i parr. 2 e 3 dell’art. 35 Cedu.

[17] Si veda Corte eur., sentt. 20 dicembre 2001, sez. I, F.L. c. Italia, ricorso n. 25639/94 e 25 ottobre 2001, sez. II, Saggio c. Italia, ricorso n. 418797/98.

[18] Dubbi, invece, sono stati sollevati con riferimento alla possibilità dei c.d. ricorsi politici. Sul punto si veda A. Pertici-R. Romboli, Commento all’art. 13 Cedu, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., p. 398.

[19] Si veda Corte eur., sentt. 18 dicembre 1996, Aksoy c. Turchia e 16 settembre 1996, Akdivar c. Turchia.

[20] In questa prospettiva si veda A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna 2002, p. 157 ss.

[21] Cfr. A. Pertici, in La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, atti del seminario del “Gruppo di Pisa”, Copanello, 31 maggio-1° giugno 2002, Torino 2003, p. 169.

[22] Cfr. B. Randazzo, Giudici comuni e Corte europea dei diritti, in La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, cit., p. 248.

[23] Cfr. A. Saccucci, Riparazione per irragionevole durata dei processi tra diritto interno e Corte europea, in “Dir. Pen. Proc.”, 2001.

[24] Si vedano in tal senso le sentt. 29 aprile 1988, Belilos c. Svizzera, par. 64 e la più recente 27 febbraio 2002, Lucà c. Italia (sez. I), in “Corriere giur.”, n. 7, 2001, p. 938.

[25] In tal senso si veda la sent. 5 ottobre 2000, Mennitto c. Italia, in “Giur. It.”, p. 1335, dove la Corte ha riconosciuto l’applicabilità dell’art. 6 Cedu ai procedimenti dinanzi ai giudici amministrativi italiani dove si faccia questione di interessi legittimi.

[26] Corte eur., sent. 28 settembre 1985, Procola c. Lussemburgo, in “Riv. it. dir. pubbl.comunitario”, 1998, p. 1081.

[27] Sentenza Raimondo c. Italia e 22 febbraio 1984, par. 43.

[28] Cfr. M. Chiavario, Commento all’art. 6 Cedu, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., p. 211.

[29] Cfr. Corte eur., sent. 21 febbraio 1997, Guillemin c. Francia e 27 giugno 1968, Neumeister c. Austria.

[30] Cfr. Corte eur., sent. 8 dicembre 1983, Pretto c. Italia.

[31] Corte eur., sent. 30 ottobre 1991, Wiesinger c. Austria, par. 57.

[32] In questo senso si veda Corte eur., sent. 10 dicembre 1982, caso Corigliano c. Italia e 15 luglio 1982, Ekle c. RFT.

[33] Cfr. Corte eur., sentt. 18 luglio 1994, Vendittelli c. Italia e 12 maggio 1999 Saccomanno e Ledonne c. Italia, rispettivamente par. 25 e par. 26.

[34] Corte eur, sent. 29 maggio 1986, Deumeland c. R.F.T., par. 80. In alcuni casi al comportamento della parte è stato equiparato quello del difensore. Si veda, ad esempio, la sent. 24 ottobre 1989, H. c. Francia

[35] Corte eur., sent. 23 novembre 1993, Scopelliti c. Italia, par. 25.

[36] Cfr. Corte eur., sent. 28 marzo 1990, B. c. Austria.

[37] Cfr. Corte eur., sent. 23 ottobre 1990, Moreira de Azevedo c. Portogallo.

[38] Cfr. Corte eur., sent. 23 novembre 1999, Arvois c. Francia.

[39] Cfr. Corte eur., sent. 25 giugno 1987, Capuano c. Italia, con osservazioni di A. Pizzorusso, in “Foro It.”, 1987, IV, c. 385.

[40] Per tale espressione cfr. J.C. Soyer-M. De Salvia, Article 6, in L. Pettiti-E. Decaux-P.H. Imbert (a cura di) La Convention européenne, II ed., Paris 1999, p. 380 ss.

[41] Corte eur., sent. 7 luglio 1989, Union Alimentaria Sanders S.A. c. Spagna, par. 40.

[42] Cfr. R. Medda-C. Octave-A. Ricci Ascoli-I. Roagna Boano, La ragionevole durata dei processi, in “Doc. Giust.”, 2000, n. 1-2, p. 143.

[43] Si veda, Corte eur., sent. 31 marzo 1992, serie A/234-C, X c. Francia e sent. 8 febbraio 1996, A. c. Danimarca, quest’ultima reperibile in “Danno e responsabilità”, n. 2, 1999, p. 184.

[44] Così in Corte eur., sent. 18 febbraio 1999, Laiano c. Italia e 29 marzo 1989, Bock c. RTF.

[45] Cfr. Corte eur., sent. del 28 giugno 1990, Obermeier c. Austria e, nello stesso senso, sent. del 26 febbraio 1993, Travisan c. Italia, in M. De Salvia, Compendium della Cedu, Les principes directeurs de la jurisprudence relative à la Convention européenne des droits de l’homme, Strasburgo 1998.

[46] Cfr. G. Berti Arnoaldi Veli, Il diritto ad un processo di ragionevole durata: la legge Pinto e l’Europa tradita, in “Questione Giustizia”, n. 1, 2003, p. 157.

[47] Corte d’Appello di Brescia, decr. 29 giugno 2001, con nota di E. Sacchettini, in “Guida al Diritto”, n. 38, 2001, p. 21.

[48] Si sostiene che un’interpretazione restrittiva dell’art. 6 Cedu, rispetto all’orientamento della Corte dei diritti, darebbe luogo ad una nuova violazione della Convenzione a sua volta denunciabile a Strasburgo. In questo senso cfr. A. Converso, Il fatto generatore del danno nella legge 24 marzo 2001, n. 89, in “Rass. dir. civ.”, 2003, p. 1038 e ss, spec. p. 1042.

[49] Cfr. V. Esposito, Relazione su Il ruolo del giudice nazionale per la tutela dei diritti dell’uomo, in “Quaderni del C.S.M.”, n. 113, Roma 2001, interamente dedicato a La ragionevole durata del processo, p. 446.

[50] Si veda, ad esempio, Corte d’appello di Milano, decr. 29 giugno 2001 col quale si esclude che la Conservatoria dei registri immobiliari possa essere considerata un’autorità chiamata a concorrere alla definizione del procedimento.

[51] Così Corte d’appello Messina, decr. 18/19 giugno 2002, ma anche Corte d’appello Roma, decr. 10 luglio 2001, caso Corbo c. Ministero della Giustizia, in “Corr. giur.”, n. 9/2001.

[52] Cfr. C. Carbonaro, I danni da irragionevole durata del processo, in I danni non patrimoniali – Lineamenti sistematici e guida alla liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano 2004, p. 289.

[53] Cass. civ., sez. I, 8 agosto 2002, n. 11987, con nota di A. Didone, in “Diritto e Giustizia”, n. 32, 2002, p. 18.

[54] Per tutte si veda, Corte d’appello di Roma, decr. 19 luglio 2001, sez. II, in “Guida al diritto”, n. 38, 2001, p. 29.

[55] Corte d’appello di Genova, decr. 12 luglio-28 agosto 2001, sez. III, in “Guida al diritto”, n. 47, 2001, p. 64.

[56] Corte d’appello di Catania, decr. 10 agosto 2001, sez. I, in “Guida al diritto”, n. 41, 2001, p. 35.

[57] Corte d’appello di Ancona, decr. 10 agosto 2001, caso Artom c. Min. Giustizia, inedito.

[58] In altre parole, si sostiene che quella avente ad oggetto l’equa riparazione per la non ragionevole durata del processo non si configuri come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.

[59] Cfr. M. Bertuzzi, Violazione del principio della ragionevole durata del processo e diritto all’equa riparazione, in “Giurisprudenza di merito”, n. 4, 2001, p. 1164 e A. Didone, Equa riparazione e ragionevole durata del giusto processo, Milano 2002, p. 36 e ss.

[60] Sul punto si leggano le osservazioni in nota alle Prime dialettiche pronunce risarcitorie di applicazione della Legge Pinto: nascita di un faticoso “tariffario”, in “Corriere giuridico”, n. 9, 2001, p. 1183 ss.

[61] Corte d’Appello di Brescia, caso D’Ingianti, cit.

[62] Corte d’appello di Milano, decr. 29 giugno 2001, caso Sbuelz.

[63] Cfr. E. Dalmotto, Diritto all’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, in Misure accelleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, a cura di S. Chiarloni, Torino 2002, p. 144 ss.

[64] Si veda, ad esempio, Corte d’appello di Perugia, decr. 15-30 ottobre 2001, caso Bordin c. Ministro della Giustizia.

[65] Per i procedimenti civili si veda Corte eur., sent. 28 giugno 1978 (serie A/27), Ko¨nig c. R.F.T., par. 98. Per i procedimenti penali si veda Corte eur., sent. 27 giugno 1968 (serie A/7), Wemhoff c. R.F.T., parr. 18-20.

[66] Per l’opinione che il termine finale coincida con la data della pubblicazione della sentenza si veda Corte d’appello di Torino, decr. 19-25 giugno 2001, caso Gheri, con nota di G. De Paola, in “Guida al diritto”, n. 41, 27 ottobre 2001, p. 19 e Corte d’appello di Trento, decr. 31 luglio 2000, caso Conceria Grifo S.r.l., in “Guida al diritto”, n. 41, 27 ottobre 2001, p. 35 secondo cui il termine finale del procedimento, ai fini della valutazione della durata ragionevole dello stesso, è sempre collegato all’emanazione della sentenza e non alla data del passaggio in giudicato della stessa. Mentre per l’opinione che ritiene che il dies a quem coincida col passaggio in giudicato si veda Corte d’appello di Messina, decr. 19 giugno-5 luglio 2001, caso Rinaudo, in “Guida al diritto”, n. 43, 10 novembre 2001, p. 63.

[67] I giudici di Strasburgo, in questo stesso senso, hanno stabilito che l’esecuzione di una decisione giurisdizionale fa parte integrante del processo, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della Convenzione e deve svolgersi anch’essa in un tempo ragionevole. Si veda Corte eur., sent. 8 giugno 1999, Nunes Violante c. Portogallo, par. 23 e sent. 19 marzo 1997, Hornsby c. Grecia, par. 40.

[68] Cfr. G. Olivieri, La ragionevole durata del processo di cognizione (qualche considerazione sull’art. 111, 2° comma, Cost.), in “Foro it.”, 2002, V, c. 254.

[69] Come si evince dalla giurisprudenza europea nella sent. 23 aprile 1987, Poiss c. Austria, par. 50, in questo senso seguita dai giudici italiani nella decisione sul caso Rinaudo, cit.

[70] Cfr. P. Van Dijk-G.J.H. Van Hoof (a cura di), Theory and Pratice of the European Convention of Human Rights, The Hague-London-Boston 1998, p. 444.

[71] Si vedano Corte eur., sentt. 15 luglio 1982, Eckle c. Germania, par. 73, 10 dicembre 1982, Foti c. Italia, par. 52 e Corigliano c. Italia , par. 34.

[72] Cfr. M.G. Aimonetto, Processo penale, legge Pinto e Corte europea, in Misure accelleratorie e riparatorie contro l’irragionevole durata dei processi, cit., p. 235. Per una rassegna della giurisprudenza europea su punto, si vedano le sentt. Corte eur., 27 novembre 1991, Kemmache c. Francia, par. 59 e del 1° agosto 2000, C.P. e altri c. Francia, par. 25. (individuano il dies a quo nella data di formulazione dell’imputazione); sentt. Wemhoff c. R.F.T., cit., 26 febbraio 1993, Messina c. Italia, par. 25 e 1° marzo 2001, Mangascia c. Italia, par. 20 (il dies a quo viene individuato nella data dell’arresto dell’indagato); sent. 19 febbraio 1991, Manzoni c. Italia, par. 16. (nella data di emanazione di provvedimenti limitativi della libertà personale, in particolare, nel mandato d’arresto); sentt. 5 luglio 2001, P.G.F. c. Italia, par. 12 e 1° marzo 2001, Orlandi c. Italia, par. 13 (nella data di effettuazione di perquisizioni e sequestri). Per la giurisprudenza nazionale, si veda per tutte Corte d’appello di Brescia, sez. II, decr. 21 luglio 2001, in cui si ritiene che nel caso in oggetto, il termine cominciasse a decorrere dall’esecuzione della perquisizione personale.

[73] Si vedano Corte eur., sent. Ledonne c. Italia, cit., par. 19.

[74] Si veda, ad esempio, le argomentazioni contenute da un lato in Corte d’appello di Brescia, decreti 23 luglio 2001, n. 79 e 80, sui casi Tecno industriale S.r.l.e dall’altro in Corte d’appello di Trento, caso Conceria Grifo S.r.l., cit. Quanto all’inquadramento dell’alterazione psichica in capo ad un ente collettivo, la giurisprudenza sostiene che “la sofferenza psichica e morale e, dunque, un danno non patrimoniale” è configurabile a carico di coloro che rappresentano l’ente collettivo, “per il principio della immedesimazione della rappresentanza organica”. In questo senso, si veda il decreto della Corte d’appello di Ancona 13 ottobre-17 dicembre 2001, n. 22/2001.

[75] Corte eur., sentenza 6 aprile 2000, Grande Camera, caso Comingersoll S.A. c. Portogallo.

[76] Cass., sezione prima civile, sent. 2 agosto 2002, n. 11573, caso S.r.l. Samantha Immobiliare c. Ministero della Giustizia, consultabile anche alla pagina internet www.dirittiuomo.it.

[77] Cfr. M. De Stefano, La Cassazione italiana riconosce integralmente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, in “Il Fisco”, 16 febbraio 2004, n. 7, I, p. 29 ss.

[78] Cfr. M. De Stefano, Legge Pinto sull’equa riparazione: conflitto tra Cassazione e Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in “Il Fisco”, 7 luglio 2003, n. 26, p. 4033 ss.

[79] Nella stessa direzione si veda anche la recentissima Cass., sent. 30 agosto 2005, n. 17499 nella quale si sostiene che “l’art. 3 [della legge Pinto] e, quindi, il principio di un termine ragionevole di durata dei processi, non trova applicazione nei processi aventi ad oggetto la determinazione di un tributo, ma solo l’applicazione di sanzioni a carattere tributario”.

[80] Cfr. M. De Stefano, Revirement della Corte di Strasburgo sulla ricevibilità dei ricorsi per la eccessiva durata dei processi dopo il revirement della Cassazione italiana, consultabile anche alla pagina internet www.dirittiuomo.it.

[81] Si veda in questo senso, Corte eur., sent. 30 gennaio 2001, Holzinger c. Austria, par. 22.

[82] Cfr. G. Verde, Giustizia e garanzie nella giurisdizione civile, in “Riv. dir. proc.”, 2000, p. 312.

[83] Così A. Tamietti, La legge Pinto riceve un primo avallo da parte della Corte europea: il rimedio da essa introdotto è accessibile e efficace, in “Cassazione Penale”, 2002, n. 2, p. 805 e ss.

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