L’impresa familiare tra disciplina tradizionale e novità sui conviventi di fatto

Gli interventi della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Cassazione hanno trasformato il panorama giuridico dell’impresa familiare, estendendo ai conviventi di fatto le stesse tutele previste per i coniugi. La sentenza della Consulta n. 148 del 25 luglio 2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis c.c. nella parte in cui escludeva i conviventi more uxorio dal novero dei familiari legittimati a partecipare all’impresa familiare, consolidando un orientamento giurisprudenziale che aveva preso forma negli anni precedenti.

Le finalità protettive dell’istituto e la residualità non recessiva

L’impresa familiare, introdotta con la riforma del diritto di famiglia del 1975, predispone un complesso sistema di tutele per garantire dignità giuridica al lavoro familiare, in applicazione dei principi costituzionali di solidarietà e uguaglianza. Come evidenziato dalla dottrina più autorevole, tale esigenza ha spinto il legislatore a superare la concezione tradizionale che riteneva la prestazione lavorativa resa nell’impresa di famiglia caratterizzata da una sostanziale gratuità.

La disciplina, seppure residuale, mantiene una naturale capacità espansiva quando il lavoro continuativo svolto per l’azienda di un familiare viene formalmente inquadrato in rapporti giuridici alternativi che non offrono adeguate tutele al lavoratore. Le protezioni previste dalla normativa devono comunque applicarsi ogni volta che risulti necessario garantire la salvaguardia di chi presta la propria opera nell’impresa familiare.

Il contenuto delle tutele e le caratteristiche del lavoro familiare

Le tutele dell’art. 230-bis c.c. presentano tratti sui generis rispetto a quelli delle tradizionali tutele lavoristiche. Il legislatore non si limita a prevedere un’adeguata remunerazione della prestazione lavorativa, ma assicura al lavoratore il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, oltre al riconoscimento di diritti patrimoniali-amministrativi che si giustificano in ragione della relazione familiare con l’imprenditore.

La remunerazione del lavoro prestato dal collaboratore familiare deve essere conforme ai parametri dell’art. 36 Cost., garantendo una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Il mantenimento deve essere garantito indipendentemente dall’andamento dell’impresa, dovendo essere soddisfatto anche se l’impresa sia in perdita o non produca profitti. La prestazione lavorativa è inoltre remunerata attraverso la partecipazione agli utili d’impresa, ai beni con essi acquistati, agli incrementi e all’avviamento, riconosciuti in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Il carattere individuale dell’impresa familiare e la distinzione dalla società di fatto

La giurisprudenza consolidata riconosce natura individuale all’impresa familiare. L’impresa familiare ha carattere non collettivo, bensì individuale, pur in presenza di un rapporto a rilevanza interna che lega il familiare titolare con ciascuno degli altri familiari collaboratori. Il familiare imprenditore titolare assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde delle obbligazioni contratte.

La distinzione tra impresa familiare e società di fatto assume particolare rilevanza pratica. L’esistenza del contratto sociale può essere desunta da manifestazioni esteriori che, per il loro carattere di sistematicità e concludenza, siano rivelatrici delle componenti del rapporto societario. Particolare significatività possono riconoscersi ai rapporti di finanziamento e di garanzia ricollegabili a una costante opera di sostegno dell’attività dell’impresa per il raggiungimento degli scopi sociali.

La valenza meramente interna della relazione partecipativa

I diritti patrimoniali e amministrativi spettanti al collaboratore familiare si configurano quali meri diritti di credito esercitabili nei confronti del solo imprenditore. La mancata previsione di un meccanismo pubblicitario in grado di tutelare il legittimo affidamento dei terzi che contrattano con l’imprenditore costituisce un ulteriore indice della volontà del legislatore di prevedere un modello organizzativo a valenza meramente interna.

La sussistenza del regime dell’impresa familiare non incide sull’operatività esterna dell’impresa, che continua a essere sottoposta alle regole proprie del modello organizzativo prescelto. Le tutele dell’art. 230-bis c.c. operano su un piano assolutamente personale e interno, in riferimento alla posizione giuridica del familiare nell’impresa, sia esso titolare o contitolare.

Le questioni di compatibilità con il regime societario

La compatibilità dell’impresa familiare con il tipo societario ha rappresentato uno dei nodi interpretativi più complessi nel decennio precedente alla sentenza costituzionale. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 23676 del 6 novembre 2014, avevano concluso per l’irriducibilità della disciplina patrimoniale dell’impresa familiare a qualsiasi tipologia societaria, evidenziando possibili incongruenze pratiche nella determinazione dell’ammontare degli utili in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato piuttosto che alla quota di partecipazione.

Tuttavia, come evidenziato dalla dottrina più attenta, il rilevato difetto di coordinamento con le regole societarie appare superabile se si considera che nessun diritto sugli utili può essere vantato dal prestatore d’opera nei confronti del socio che, a sua volta, non li abbia ricevuti dalla società. Il rapporto interno tra collaboratore e familiare rimane identico sia che quest’ultimo svolga individualmente la propria attività imprenditoriale sia che la eserciti tramite uno strumento societario.

Il superamento delle difficoltà di adattamento al sistema societario

La negazione dell’operatività dell’art. 230-bis c.c. quando l’attività d’impresa si svolga in forma societaria determinerebbe un serio vulnus al sistema di tutele, facilmente eludibile mediante l’interposizione di uno schermo societario. La creazione di un diaframma tra società e socio non può costituire ostacolo all’applicazione della disciplina inderogabile dell’impresa familiare, considerato che il socio beneficia dell’attività prestata dal proprio familiare limitatamente alla quota della sua partecipazione sociale.

Il rapporto interno che si instaura tra collaboratore e familiare rimane identico sia se quest’ultimo svolga individualmente la propria attività imprenditoriale sia se la eserciti tramite strumento societario. Ciò che non può mai mancare è lo stretto collegamento con l’attività imprenditoriale del familiare, indipendentemente dalle modalità organizzative esterne dell’impresa. Il significato letterale dell’art. 230-bis c.c. deve cedere di fronte al profilo sostanziale dell’interesse protetto: tutelare il lavoro familiare nell’impresa, indipendentemente dalla struttura prescelta da chi ne sia a capo.

Il percorso giurisprudenziale verso la declaratoria di incostituzionalità

Il percorso che ha condotto alla sentenza costituzionale del 2024 era iniziato con la modifica del quadro normativo operata dalla Legge Cirinnà (L. n. 76/2016) che, con l’introduzione dell’art. 230-ter c.c., aveva tentato di colmare il vuoto normativo relativo ai diritti del convivente di fatto. Tuttavia, questa disciplina presentava evidenti lacune rispetto all’art. 230-bis c.c., riservato ai familiari. Il convivente riceveva solo il diritto alla partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, restando esclusi diritti fondamentali come il mantenimento e i poteri di gestione.

La disparità di trattamento aveva creato una situazione discriminatoria che non sfuggì all’attenzione della giurisprudenza. Le Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 1900 del 18 gennaio 2024, avevano evidenziato come il legislatore avesse inteso trattare in modo differenziato famiglie “di fatto” e famiglie “formali”, riconoscendo alle prime solo una tutela minimale, con una tecnica legislativa “per sottrazione”. Questa impostazione aveva portato inevitabilmente alla rimessione della questione alla Corte costituzionale.

Gli effetti consolidati della declaratoria di incostituzionalità

La Corte costituzionale ha fondato la propria decisione su una duplice violazione costituzionale: la lesione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost. e la contraddittorietà logica dell’esclusione del convivente da una norma posta a tutela del diritto al lavoro. La Consulta ha sottolineato come il crescente rilievo sociale della convivenza di fatto ne legittimi l’inquadramento nell’ambito delle formazioni sociali previste dall’art. 2 Cost.

L’effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale è stato l’abrogazione dell’art. 230-ter c.c. e l’estensione integrale dell’art. 230-bis c.c. ai conviventi di fatto. Il convivente che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nell’impresa familiare ha acquisito diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, alla partecipazione agli utili e agli incrementi dell’azienda, ai diritti di amministrazione e controllo dell’impresa, e al diritto di prelazione in caso di alienazione dell’azienda.

Le applicazioni pratiche dopo la sentenza costituzionale

A seguito della sentenza della Corte costituzionale, si sta consolidando un orientamento giurisprudenziale che valorizza la sostanza dei rapporti rispetto alla forma. L’estensione dei diritti dell’impresa familiare ai conviventi di fatto ha aperto nuove prospettive applicative, richiedendo però particolare attenzione nella documentazione dell’apporto lavorativo, della continuità della prestazione e del contributo agli incrementi aziendali.

La distinzione tra collaborazione familiare e vero rapporto societario mantiene la sua rilevanza, considerando che l’estensione integrale dell’art. 230-bis c.c. attribuisce al convivente anche diritti di gestione che possono risultare invasivi per l’impresa, specialmente in presenza di altri familiari collaboratori. La natura residuale della disciplina conserva la sua importanza, consentendo all’istituto di trovare applicazione anche quando prestazioni lavorative continuate non ricevono altrove adeguata protezione.

L’evoluzione normativa e giurisprudenziale testimonia l’attenzione del sistema giuridico verso forme familiari non tradizionali, in linea con i mutamenti sociali e i principi costituzionali di uguaglianza e dignità del lavoro. La decisione della Corte costituzionale rappresenta un equilibrio tra la tutela delle formazioni sociali diverse dalla famiglia tradizionale e la necessità di garantire protezione effettiva al lavoro prestato in ambito familiare.

Le questioni analizzate evidenziano la complessità della materia e la necessità di un approccio specialistico che tenga conto delle evoluzioni normative e giurisprudenziali ormai consolidate. Per ogni situazione specifica, è fondamentale affidarsi a professionisti competenti che possano fornire la consulenza più adeguata. Lo Studio Legale Bisconti Avvocati, con la sua consolidata esperienza nel diritto commerciale, è a disposizione per assistere clienti e aziende in tutte le problematiche relative all’impresa familiare e ai rapporti patrimoniali tra conviventi. Contattaci per una consulenza personalizzata e scopri come possiamo tutelare al meglio i tuoi interessi.

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